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Renata Fabbri ha vinto ancora, due mostre su due, catturando la mia completa attenzione e soprattutto la mia curiosità. È la seconda volta che tra le pareti della sua galleria ritrovo quella che per me è davvero arte: un'immagine a cui è legato un concetto, una filosofia, se non addirittura un intero mondo che trova tangenza con la realtà nell'immagine stessa, creando una sorta di portale che lascia fluttuare la mente in altri universi, vicini, ma non sempre concepibili. Inutile dirlo, è stata questa sensazione che mi ha lasciato l'esposizione dal titolo "Silva Imaginum" di Sophie Ko Chkheidze, inaugurata lunedì 11 maggio.


A fare da protagoniste indiscusse e appariscenti della mostra sono le numerose geografie temporali che già nel titolo esprimono enorme poesia e una percezione della realtà tutt'altro che comune e superficiale. Unire un concetto immanente, sebbene vasto, come la geografia, con qualcosa di così trascendente come lo è il tempo, è già un'opera d'arte in sé. La genialità sottesa ai lavori che recano tale titolo, che potrebbe sembrare "soltanto" quella di far coincidere due mondi, si unisce all'immagine spettacolare e molto intrigante resa dall'artista e a ciò che sta dietro ad essa. La realizzazione del quadro avviene in modo di per sé decisamente singolare. Il pigmento puro, o la cenere, viene disposto dall'artista nel supporto, facendo in modo che l'opera, concepita e creata, inizi a vivere una volta terminata. Essendo infatti di natura instabile la polvere si muove, dando inizio così al divenire di forme e sensazioni nuove che proseguono e completano il percorso intrapreso.
A partire dalla prima sala si respira un'aria estremamente densa di significato, non di facile comprensione, sia chiaro, ma inscindibilmente legata ad una visione del mondo variegata e dinamica, dove le parti tra loro giocano, dialogano e talvolta lottano. Cielo terso e notte. Azzurro luminoso e nero puro. L'energia e il sorriso della vita accanto alla placidità anestetizzata della morte. Due fasi della realtà in costante discordia, ma assolutamente legate e dipendenti tra loro, in quanto parte di un ciclo chiuso all'interno del quale la presenza di una implica l'assenza dell'altra. Sophie le esprime con più opere: una solitaria da una parte, a destra, ed un gruppo sulla sinistra, più in alto. Si potrebbe restare ore a fare da spettatori al dialogo muto che le due parti conducono. Da un lato il pigmento nero e la cenere che, insieme, danno vita ad una galassia, elegante ed assolutamente statica, allegoria della morte, dall'altro una particolare Geografia Temporale, composta da pigmento puro dalla tonalità forte, radiosa e appariscente, inserita in una cornice dorata, quasi a voler accentuare quella nota di vitalità, quel sorriso che l'opera rivolge a noi. Non è casuale nemmeno la posizione dei lavori. In questa sala infatti la parte meno terrena è posta più in alto in quanto non implica alcunché di umano, in contrapposizione con la vita, tremendamente più dinamica, la cui posizione, permette al pubblico un confronto diretto, sullo stesso piano dello spettatore in quanto è parte di lui.
Nella seconda sala i luoghi assumono un'importanza ancora maggiore. Ciò che risulta è una simbolica "bussola" che pone l'uomo come punto di riferimento, attribuendo a questo un valore che sta via via scemando, per mezzo di quattro frammenti rappresentanti parti umane, disposte come punti cardinali. L'importanza del punto di vista raggiunge il suo apice con la lastra di vetro al piano inferiore che si rivela solo cambiando prospettiva, donando allo spettatore che non si muove dalla propria posizione iniziale una visione parziale ed incompleta, mentre a quello che accetta di spostarsi e di scendere a compromessi con l’opera mostra tutto ciò che è rimasto della vita: pochi resti molto espressivi colmi di speranza e libertà, un’esistenza ridotta ai minimi termini in maniera eloquente ed espressiva.
Con enorme rammarico non è stato semplice, data la mia preparazione da terza liceo, comprendere la realtà complessa del ciclo Waldgaenger, situato al piano inferiore. Nonostante questo mi ha trasmesso un forte senso di insicurezza nei confronti della realtà, sapientemente contrapposto alla Geografia Temporale dalle tonalità rosa che occupava la parete di fianco al ciclo, volta quasi a rassicurare lo spettatore grazie alla stabilità espressa dal colore tenue.
Silva Sensuum forse sarebbe stato più onnicomprensivo rispetto alle tematiche che la mostra affronta, di cui l’immagine, per quanto sbalorditiva e geniale, è il mezzo per trasmettere qualcosa di più ampio e concettuale. Per questo il genitivo di “sensus” ovvero sensazione, pensiero.
Dal passare del tempo alla resistenza quasi immateriale di un frammento, dalla speranza che esso esprime alla condizione di instabilità che la cenere ha intrinseca, fino ad arrivare al senso di libertà e di prigione che il vetro racchiude. Un panorama vastissimo di simboli armonicamente coniugati che danno luogo a qualcosa di magico. È sorprendente come il dualismo di vita e morte, contrapposte e testimoniate dallo scorrere della polvere, simile, come mi ha spiegato l'artista, ad una clessidra, si sommino all'infinita ciclicità che viene a crearsi tra le due riunendo tutti gli aspetti del mondo e restituendo qualcosa di astratto e concettuale ma allo stesso tempo profondamente radicato nella realtà, portando alla luce la verità sulla nostra vita.

 

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